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Manissa o Manisa è una città turca localizzata nella costa occidentale del paese, pregna di giacimenti di magnetite. L’informazione non avrà destato alcun interesse in chi non sa cosa sia la magnetite, ma potrà solleticare la curiosità non appena nomino il magnete.

Difatti, la magnetite non è altro che un minerale di ferro dalle alte proprietà magnetiche, volte ad attrarre due oggetti contenenti lo stesso componente.

Questo legame non fece che suscitare dei sentimenti esoterici agli antichi, i quali si sono riversati nell’etimologia e nell’uso della dialettica, per sottolineare alcune capacità fisiche correlate.

Per esempio, si usa al cospetto di una persona che riesce a catturare gli sguardi per la sua avvenenza o carisma, dicendo che possiede magnetismo.

 

Manissa in Turchia

Il destino di Magnesia, l’antecedente di Manissa

 

Quando la Turchia faceva ancora parte dell’Asia Minore, la città di Manissa era conosciuta con il nome di Magnesia al Sipilo. In questa zona vennero scoperti numerosi giacimenti di Magnetite, sebbene già gli antichi Greci ne conoscevano le potenzialità.

Non a caso chiamavano il minerale ‘Pietra di Magnesia’ e lo utilizzavano per realizzare dei magneti per la bussola, benché in forma rudimentale. Si trova affacciata sul Mar Egeo, per cui la connessione con la Grecia era piuttosto attiva.

Durante la dominazione Ottomana la zona era circondata da una montagne che deformavano la linearità del paesaggio e da moschee, che vennero distrutte in larga parte dai soldati greci in ritirata durante la Guerra di Indipendenza turca.

Se calcoliamo la distanza con i mezzi di trasporti odierni, la città di Magnesia dista circa otto ore di bus con la compagnia Flixbus dalla capitale Instanbul.

 

Bandiera turca alla finestra

Cosa vedere a Manissa?

 

Oggi non è rimasto molto da vedere a Manissa. In compenso, ci si può sollazzare nelle spiagge e godere di una reale atmosfera turca. Difatti, questa località esula dai circuiti turistici classici.

Pertanto, è un’occasione cruciale per tutti quei viaggiatori borderline che cercano l’originalità. In città, si possono visitare le moschee rimaste, gli antichi giacimenti di magnetite e il museo correlato.

Oppure, si può venire qui in concomitanza del festival Mesir Şenlikleri durante la settimana di Nevruz, che va generalmente dal 21 al 24 marzo, e coincide con l’inizio della primavera.

Si tratta di un programma in cartellone da oltre quattrocento anni e dedicata perlopiù alla Pasta di Mesir. Di cosa sto parlando? Di una pasta realizzata con ben quarantuno tipi di erbe e spezie diverse. È conosciuta anche con il nome di Mesir Macunu.

Il cibo così ideato salvò Hafsa Sultan, la madre del Sultano Soliman il Magnifico, da una malattia improvvisa e difficile da debellare. Oggi viene distribuita dopo essere stata sottoposta a canti e preghiere e viene offerta con devozione agli stranieri, in quanto ospiti graditi.

La festa prosegue con diverse degustazioni di cibo e di bevande tradizionali, incrociandosi a esibizioni musicali,  folkloristiche e rappresentazioni teatrali per i più piccoli.

Un evento imperdibile, considerando che il Festival è entrato a far parte del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO dal 2012.

Da quando ho scoperto i principi dell’estetica giapponese li ho integrati nella mia vita riportando un maggiore equilibrio e distacco. I concetti risultano piuttosto interessanti e sono ben differenti dai nostri.

Il tema di sfondo rimane l’ordine che non viene rappresentato in modo pianificato e costruito, bensì in maniera effimera e mutevole, un elemento intrinseco del tempo.

Non è qualcosa di perfettamente realizzato in ogni suo dettaglio ma un componente che cambia a seconda dello scorrere delle ore, del giorno, delle stagioni e così via.

Principi dell’estetica giapponese

 

La posizione privilegiata del Giappone ha permesso di mantenere inalterate le radici culturali per secoli prima dell’inevitabile offuscamento e globalizzazione da parte della cultura occidentale.

Sono pervenute così intatte le concezioni di bellezza basate sul concetto buddista dell’impermanenza: il principio cardine che ricerca l’armonia nella semplicità, il quale va a cozzare con il nostro continuo esporsi e ostentare.

 

Possiamo riassumere così i seguenti principi dell’estetica giapponese:

  • MONO NO AWARE: l’impermanenza, il cui simbolo è rappresentato dal fiore del ciliegio;
  • WABI SABI: l’imperfezione della bellezza;
  • MIYABI: indica la quiete come forma essenziale dell’eleganza;
  • MA: il vuoto inteso come pausa o silenzio;
  • SHIBUSA: la capacità di sottintendere;
  • KIRE: ciò che rimane escluso;
  • JO A KIU: il giusto ritmo o il giusto momento;
  • YOAKU-NO-BI: la bellezza di ciò che manca;
  • YUGEN: l’oscurità;

Se paragoniamo questi concetti alla nostra idea di bellezza ci rendiamo conto di quanto poco abbiamo in comune con l’antica cultura nipponica.

Per riassumere possiamo affermare che la bellezza, secondo la filosofia orientale, è qualcosa in movimento, in continuo cambiamento ed evoluzione rispetto ai parametri di perfezione che si ricerca nella parte occidentale del pianeta.

La perfezione è proprio ciò che ostacola la bellezza in quanto la rende poco credibile e artificiosa. Ora, però, vediamoli meglio nel dettaglio.

 

la geisha e la sua bellezza ripresi dall'estetica giapponese

 

MONO NO AWARE

Il primo concetto “mono no aware” è quello a cui sono più affezionata e che avevo deciso di perseguire in un 2020 piuttosto rocambolesco. A causa o grazie alla pandemia la vita si è dimostrata più fragile di quanto sembrasse.

Tutti noi abbiamo assaporato l’incertezza nonostante le basi solide sulle quali si poggia la nostra vita. Abbiamo dovuto interfacciarci con un nuovo stile di vita che ancora fatichiamo a sopportare e, integrare, nel nostro quotidiano.

Questo cambiamento repentino, però, ci ha reso consapevoli di come le cose siano mutevoli e non statiche: se impariamo a lasciare andare e ad accogliere il presente la vita si trasformerà in qualcosa di più intenso e ricco di sfumature.

 

WABI SABI

Il wabi sabi cavalca l’onda dell’imperfezione dimostrandoci come gli oggetti possano apparire ammirevoli nonostante alcuni dettagli sbagliati. Anzi, sono proprio questi difetti, a renderli unici.

Allo stesso modo possiamo translitterare il concetto a noi stessi e alle persone iniziando ad amarle e, ad amarci, proprio in base alle loro e, alle nostre, particolarità e a rispettare le loro e ancora, le nostre, spigolosità di carattere.

Anch’esso è un concetto che dovremmo sperimentare e introdurlo nelle nostre vite affinché ci sia maggiore comprensione e rispetto.

 

MIYABI

Miyabi è l’arte di godere della quiete e anch’esso lo abbiamo sviluppato, nostro malgrado, durante il primo lockdown. Si tratta del momento in cui ogni incombenza è stata svolta e, liberi da ogni dovere, ci si può dedicare al proprio hobby o piacere personale.

Il termine è strettamente legato alla cultura: quando il nostro essere si esprime attraverso la creatività, l’emotività o l’arte in generale nasce l’espressione individuale. Altri due vocaboli si sono affiancati a miyabi: Iki e senren.

Il primo, iki, è praticamente scomparso e significava l’eleganza accompagnata dalla sensualità mentre in senren, più attuale, permane il concetto di eleganza spogliato, però, dalla sensualità. Il vocabolo per come è usato oggi si può rapportare all’uso di chic.

 

MA

Si riallaccia alla filosofia buddista inglobata nel senso di vuoto e compare in ogni campo artistico. Il ma, ovvero la pausa tra due o più oggetti, situazioni ed emozioni, ha la stessa rilevanza dell’oggetto stesso perché si trova collocato nel medesimo livello di esistenza.

Volendo contestualizzare il concetto lo potremmo paragonare al non respiro presente negli esercizi di pranayama dello yoga o alla suddivisione dello yin e dello yang nel taoismo. È un’astrazione affascinante che raramente troviamo contemplata nella nostra cultura occidentale.

 

SHIBUSA

Lo shibusa rappresenta l’espressione massima dell’estetica giapponese e contiene al suo interno sette proprietà:

  1. semplicità;
  2. modestia;
  3. essenzialità intrinseca;
  4. naturalezza;
  5. purezza;
  6. sobrietà;
  7. ruvidezza (intesa come quella naturale presente in natura).

Tutti questi elementi assemblati assieme rendono l’idea di shibusa: un qualcosa di non artefatto, artificioso o costruito ma delicatamente naturale.

 

KIRE

Il kire si associa all’ikebana, l’arte di recidere i fiori, molto amato dagli appassionati del genere. In questo contesto i fiori vengono elaborati in modo da assumere l’aspetto di un’espressione personale.

Le parti eliminate hanno però anch’esse una loro rilevanza in quanto concorrono a esprimere la piena bellezza del fiore e, visto da un punto di vista buddista, consentono di togliere il superfluo al fine di vivere nell’essenziale.

Kire abbraccia anche l’impermanenza perché sottolinea come alcune parti, sebbene prima fossero necessarie, con il tempo potrebbero diventare obsolete o intralcianti al nostro cammino spirituale.

 

YOAKU-NO-BI

L’allusione potrebbe essere la traduzione di yoaku-no-bi secondo il pensiero zen che rimanda ancora una volta al nulla e quindi a tutto ciò che non è rappresentabile.

Un altro significato è quello utilizzato nel Medioevo in riferimento ai giardini sguarniti di fiori o gingilli che sottointendeva un uso di spazi vuoti e soggetti incolori.

Una sorta di “bellezza della pochezza” che andava a contrastare con il lusso e l’ostentazione, strenui oppositori dei principi dell’estetica giapponese.

JO A KIU

La parola jo a kiu rappresenta un’idea astratta applicata a diverse arti giapponesi tra cui il teatro, la musica, la cerimonia del tè, eccetera, e sintetizza la coreografia del movimento.

Solo per la musica indica un ritmo continuo, quasi monotono, totalmente avulso dalla nostra concezione di note e pause, mentre per le altre arti è un susseguirsi di momenti che vanno dal lento al veloce, per concludersi in rapidità.

L’idea rimane comunque la stessa: trovare, attraverso una serie di movimenti, un andamento che sia armonico e coerente al momento presente.

 

YUGEN

Paragonando il termine yugen a un vocabolo di forte astrazione occidentale potremmo usare il concetto junghiano di simbolismo inconscio, un qualcosa, quindi, di insondabile e imperscrutabile.

Il fascino del mistero e di tutto ciò che non può essere spiegato a parole ma che possiede, in realtà, una forte impressione a livello inconscio. Nel teatro No la parola indica, invece, la grazia dei movimenti, frutto di anni di esercitazione e fatica.

Il lato oscuro di ciò che appare naturale ma in realtà è sinonimo di sfiancante allenamento e feroce precisione.