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La mucca Jacqueline è la protagonista del film che racconta il viaggio da un piccolo villaggio dell’Algeria alla caotica e magnetica Parigi. Assieme a lei c’è il suo mentore: Fatah, un contadino che sogna di partecipare al salone dell’agricoltura di Parigi.

La manifestazione si svolge una volta all’anno e ogni anno Fatah manda una richiesta di partecipazione. Commossi dalla devozione, gli organizzatori decidono di invitare Fatah e la mucca Jacqueline a presenziare all’evento.

Alla notizia il villaggio si anima e nonostante il disappunto della moglie, si organizza per raccogliere i soldi necessari al viaggio. L’itinerario sarà il seguente: dall’Algeria a Marsiglia in nave e poi a piedi fino a Parigi.

La lunga camminata della mucca Jacqueline

 

Il protagonista del film è talmente emozionato dall’avventura da suscitare il rispetto e l’empatia di tutti coloro che incontra. Coinvolge le persone nella sua esperienza e li emoziona con i suoi sogni.

Dall’Algeria a Marsiglia non subisce intoppi ma è quando inizia il viaggio a piedi che si susseguono i problemi. A seguito di alcuni giorni di cammino, la mucca Jacqueline si inabissa in uno stagno in preda alla stanchezza, e Fatah non riesce a smuoverla.

Saranno le sue urla e le sue richieste di aiuto a fermare una macchina che sta passando in quel momento. Ne esce il proprietario del terreno che lo rimprovera per aver sconfinato nei suoi possedimenti.

Cambia subito registro, però, non appena legge la paura e la disperazione negli occhi del contadino algerino. Aiuterà quindi Jacqueline e ospiterà entrambi nel suo castello.

Dopo aver ripreso le forze ed essersi rimesso in cammino cominceranno i guai peggiori, che porteranno il povero Fatah a ubriacarsi e a manifestare involontariamente proprio contro il salone dell’agricoltura.

La sua felicità rischierà di vacillare ma gli amici che avrà conosciuto strada facendo interverranno in suo favore per raggiungere, ahimè non centrare, il suo obiettivo. 

 

in viaggio con la mucca Jacqueline

Recensione

 

La pellicola ha una connotazione decisamente spiritosa basandosi su equivoci e contraddizioni che non sminuiranno mai il personaggio. La mucca Jacqueline sembra quasi una presenza paziente, involontaria e accomodante a sostegno di Fatah.

Ironizza sui pregiudizi degli europei nei confronti dei musulmani e viceversa, denunciandone in modo divertente le banalizzazioni. Fatah, infatti, grazie al suo carattere solare e allegro conquista tutti e riacquista merito anche fra i suoi connazionali.

Una metafora per far capire che non ha importanza la provenienza, è il viaggio che si compie a fare la differenza. Un approccio semplice e caloroso avvicina le persone e le invita a sedersi in un ipotetico tavolo di conversazione.

 

Trailer del film:In viaggio con Jacqueline

 

Essere un flâneur o una flâneuse è una vocazione personale e nasce in modo spontaneo da chi ricerca nel mondo la propria strada. Matura con l’esigenza di riportare l’ordine delle cose dall’esterno verso l’interno, al fine di trovare un proprio equilibrio.

Il flâneur è essenzialmente una persona che rifugge dal caos per ritrovarsi in presenza del mondo e di sé stesso, attraverso la contemplazione dei particolari e dei dettagli che formano la dinamica di una città.

L’origine dell’essere un flâneur

 

Il flâneur nasce in Francia e più precisamente a Parigi, una città perfetta in cui passeggiare e attuare la ritenzione dei sensi. Diventa un personaggio letterario grazie agli autori che gli danno un’identità definita. Infatti, lo considerano una persona errante, in balia dei suoi pensieri e completamente assorto nel momento presente.

Non definisce una meta ma vaga lungo la strada osservando ogni cambiamento, ogni minuzia che attira la sua attenzione. L’importante non è macinare chilometri ma trovare una sorta di quiete nel camminare, senza seguire un percorso preciso.

Si trattava inizialmente di un dandy, annoiato dalla vita di società e dalle sue regole, tanto da dover spazzare via questo patema d’animo consumando le scarpe – opportunamente fatte a mano – per nascondersi fra la folla.

Proprio questo suo mimetizzarsi gli dava la possibilità di sradicare l’idea del personaggio che si era creato all’interno del suo circolo, liberandolo definitivamente dalle maschere che lo intrappolavano.

Era un modo per soffocare il malessere di vivere: cambiando prospettiva e affannandosi a ricercare la bellezza in un monumento, in un sorriso di un passante, in un anfratto sconosciuto o in un progetto architettonico; riusciva in qualche modo a quietare la propria anima in subbuglio, placandola.

 

essere un flaneur

 

Essere un flâneur oggi

 

Ha senso di esistere ancora oggi il flâneur?

Certo! Egli si trova nelle vesti di una persona che cammina senza sosta e senza meta fra le vie cittadine, meravigliandosi della bellezza dell’ingegno umano. Non si entusiasma davanti a una vetrina di un negozio, bensì dall’incontro improvviso con una chiesetta del ‘500.

La città ideale rimane sempre Parigi ma l’identità è cambiata. Quindi il flaneur deve ricercare altre località in cui la personalità non stia andando sbiadendosi a causa della globalizzazione e della furia architettonica passata.

Un’impresa piuttosto ardua, ma non impossibile, perché non importa il contesto quanto l’essenza dell’essere. Ogni città può diventare Parigi se la si osserva con gli occhi luccicanti di sorpresa e scoprendo l’assonanza che rivela con l’animo stesso.

In poche parole la sostanza non cambia: l’imperativo è perdersi per ritrovarsi, vagare per concentrarsi nel momento presente, osservare i dettagli per riconoscere le proprie imperfezioni, solo così l’animo può guarire dalle turbolenze del vivere.

Una tecnica di introspezione che allontana la mente da dentro proiettandola all’esterno, per poi, a causa di un particolare che attira improvvisamente l’attenzione, riportarla repentinamente all’interno, in modo del tutto inaspettato.

Un saliscendi di emozioni e di momenti sorprendenti. Un viaggiatore con un passaporto pieno di timbri, ma fatti di attimi scribacchiati dalle sensazioni.

L’arte di vagabondare a Parigi

 

Ho scoperto il personaggio del flaneur grazie al libro scritto da Federico Castigliano “Flâneur: l’Arte di Vagabondare per Parigi” in vendita su Amazon sia in versione cartacea che in ebook.

L’ho divorato in pochi giorni perché da subito ha attirato la mia attenzione per la capacità di descrivere non solo il flâneur ma anche la bellezza sottintesa di Parigi.

Il libro è suddiviso in capitoli che, adattandosi al profilo proprio del flaneur, possono essere letti anche in modo non ordinato. Ognuno di essi racchiude una linea di pensiero che viene conclusa con la fine del capitolo.

Sarà un piacere perdersi nella lettura come se tu stesso ti ritrovassi sulle strade di Parigi, voltando prima a destra e poi a sinistra, osservando i differenti stili presenti nella capitale francese.

Ti verrà voglia di prenotare il primo volo e di provare per davvero ad attraversare quei vicoli, ascoltando i rumori provenire dalle case o annusando gli odori che usciranno dalle finestre; fermandoti magari davanti a una pasticceria per assaggiare un macaron.

Ma soprattutto se dentro di te aleggia una forma di flânerie, ti sentirai finalmente compreso e orgoglioso di esserlo. Forse per la prima volta capirai che il “fare niente” è salutare e terapeutico, perché come dice l’autore nel libro:

 

Non perdo la strada, come fanno gli sciocchi o i turisti, piuttosto perdo me stesso,

mi libero per qualche ora del peso ingombrante del mio io“.